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Siamo ancora capaci di educare davvero?

(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Non è certamente facile parlare dell'omicidio di Giulia. Non è facile parlarne perché i fattori che entrano in gioco sono infiniti e complicati come lo è la vita delle persone, delle famiglie, degli affetti, delle tante paure e   delle fragilità nascoste dietro una sicurezza ostentata e tragicamente malata.  Non vi parlerò di Giulia e del suo assassino: troppa curiosità morbosa,  pagine e pagine di giornali, cronache dettagliate sulle sue ultime ora di vita. E troppe le parole d'ordine ideologiche e politicizzate. Quante analisi e riflessioni! Tutti competenti  pronti a dare spiegazioni e ricette: politici, sociologi, teologi, filosofi, pedagogisti, storici...

Vorrei cercare con voi di mettere a fuoco il  cuore di questa orribile vicenda. Penso che tutto ruoti attorno alla questione educativa, preoccupazione ultima di questo nostro povero paese preso da ben altri pensieri

Da bambini e bambine noi siamo maturati perché accompagnati e accuditi da un papà e da una mamma, da  maestri e  maestre, da  educatori che ci hanno aiutato a fare esperienze di relazioni e di affettività fuori di casa, in oratorio, in parrocchia, nello sport o nel tempo libero. È nel percorso di accompagnamento educativo che va trovata,  a mio parere, la chiave per comprendere questa lunga catena di femminicidi. Educare, da educere, è "tirar fuori" il meglio in ciascuna persona e renderla capace di gestire le proprie fragilità, tra queste la violenza che si annida dentro ognuno di noi.  Quando non siamo stati educati a gestire il conflitto, le immancabili difficoltà relazionali e gli innamoramenti falliti che si presentano durante il percorso di vita, soprattutto durante l'adolescenza, la violenza viene incubata e mascherata dalle buone maniere, pronta a sfociare in rabbia e violenza bruta, in volontà di possesso del corpo dell'altro e della sua vita interiore.

La prima interrogazione da porci è se siamo ancora capaci di educare  bambini e bambine a gestire il conflitto, ad  abitare le contrarietà e le divergenze, a gestire il litigio, l'abbandono e la rottura di una relazione, passaggi indispensabili attraverso i quali si diventa adulti maturi ed equilibrati, autonomi e attrezzati per vivere la vita come una avventura. Come li aiutiamo a crescere? E noi adulti, che tipo di testimonianza stiamo offrendo? 

Li educhiamo al rispetto delle regole senza le quali non è possibile alcun "gioco di vita", regole da cambiare se necessario, ma insieme? Siamo capaci di gestire il conflitto indotto dai "no" dati per proteggere il buon vivere, a volte la vita stessa? Educhiamo al senso del limite, a "fare fatica"? Siamo capaci di educare ad una sessualità sana? O lasciamo che a istruire gli adolescenti siano i siti pornografici che alimentano, tra i maschi in particolare, una sessualità da prestazione, misogina  e senza alcun   rispetto per il corpo femminile?

La seconda interrogazione che pongo riguarda noi maschi e il principio di paternità. La stragrande maggioranza degli uomini grazie a Dio non è violenta, il mondo  sarebbe un inferno. Ma anche gli uomini migliori, inconsapevolmente nel quotidiano, possono contribuire a creare quell'humus culturale che può indurre la violenza di pochi sulle donne. I dati Istat  ci avvertono: il 39% degli uomini nega l'esistenza  della violenza sessuale e "che se vuole la la donna può sottrarsi a un rapporto sessuale"; il 19,7% ritiene che le donne possono provocare violenza sessuale con il loro modo di vestire; il 16% dei giovani ritiene normale e accettabile che un uomo controlli il cellulare o i social della propria compagna. Noi uomini, assieme alle   mogli/compagne, con le colleghe di lavoro, nell'associazionismo dobbiamo farci promotori di una rigenerazione della vita sociale e culturale. 

Riconquistiamo una gestualità rispettosa delle differenze e il significato di parole che oggi appaiono poco convenienti come "padre" e "paternità", nonostante la principale preghiera cristiana inizi con "Padre nostro". Tornare alla profondità delle parole non è un esercizio meramente intellualistico ma la via per svelare anche il lato oscuro del principio di paternità, che sappiamo essenziale assieme a quello di maternità per educare alla vita. Il lato oscuro è il potere della forza come dominio e imposizione, una ideologia dalla quale spogliarci, di cui siamo prigionieri e che in certi ambienti mascheriamo come   stili sanamente aggressivi e competitivi. Una ideologia che non accetta la differenza disturbante dell'altro diverso, una pietra di inciampo  che offusca il nostro ego, il nostro narcismo. E la prima differenza "disturbante" che incontriamo nella  nostra crescita è quella uomo-donna, la differenza attraverso la quale si comprendono tutte le altre. Solo se si è cresciuti nella convivialità delle differenze si contrasterà   l'ideologia della forza di dominio e di possesso nelle relazioni tra le persone.   

È un compito culturale, educativo, di formazione permanente per coloro che sono per vocazione papà e mamme, per i professionisti nella scuola e in tutte le attività educative.

 

 

(Crediti fotografici: iStock.com/ Nastco)

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