(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) L'ultimo rapporto Istat sugli Enti non profit ha evidenziato alcuni nodi critici aprendo una riflessione all'interno del Terzo Settore per lo più di tipo organizzativo, sui servizi o sulle funzioni da attivare, sulle iniziative da intraprendere. Ci si è concentrati sul "cosa fare" piuttosto che sul "perché lo si fa" e "come lo si fa".
Partiamo dai dati. Il rapporto rileva che dal 2015 al 2021 i volontari sono scesi da 5,5 milioni a 4,6 milioni senza comunque far venir meno - dice sempre l'Istat - l'aiuto, il soccorso, il sostegno ai bisogni del paese; insomma, nonostante il calo dei volontari, il Terzo Settore è tuttora uno dei presidi più significativi per la tenuta sociale del Paese, una vera e propria dorsale strategica che alimenta e sostiene quel capitale sociale che garantisce cura e benessere, inclusione e coesione sociale. Altri dati sono noti e più confortanti: sono 360.000 gli enti censiti con un 8,1%, e 870.000 i dipendenti con 10% rispetto al 2015; il 56% delle istituzioni non profit è concentrato nelle regioni del nord, è cresciuta la capacità delle organizzazioni di interagire con relazioni più strutturate con le istituzioni locali, è avviato il processo di digitalizzazione anche se non raggiunge livelli adeguati; la gran parte degli enti sono impegnati in attività rivolte alla collettività e al vasto pubblico (86,5%) mentre il restante si dedica al sostegno delle persone disagiate e più vulnerabili. Confermato il dato che vede la maggioranza dei volontari impegnati nella promozione sportiva, a seguire l'animazione culturale, le attività ricreative e la protezione civile.
Torniamo sui dati che hanno destato più attenzione, due in particolare: il calo dei volontari e al tempo stesso l'aumento del numero delle istituzioni non profit, quindi della frammentazione e della tendenza a farsi ognuno una propria casa, seppur piccola.
Ho trovato assonanti con questa mia riflessione i dati da poco pubblicati sulle motivazioni che i giovani adducono quando si dimettono volontariamente dal lavoro (ne ho scritto in un precedente articolo): l'esiguo coinvolgimento, la non condivisione degli obiettivi, la poca qualità delle relazioni, la scarsa conciliazione dei tempi di vita. Aggiungo un altro elemento: uno dei termini più utilizzati - e consumati - nell'analisi sociologica ed economica è la parola trasformazione contrapposta a cambiamento. Alcuni autori descrivono il nostro tempo come un "salto quantico" che chiederà processi trasformativi assai profondi non accontentandosi di un cambiamento solo di abito: se il cambiamento avviene nella continuità e procede lungo la stessa strada con gradualità, la trasformazione al contrario produce un cambiamento di stato e di forma, fa un salto e prende un'altra via.
Provo a riportare questi due brevi cenni nel campo del Terzo Settore e del Volontariato. Sono tre gli epicentri, ci ricordano gli amici Riccardo Bonacina e Paolo Venturi: i cambiamenti nel mercato del lavoro (precarietà e bassi salari), la crescita delle disuguaglianze che prosciugano il principale bacino di volontari (il ceto medio, le persone cioè che hanno una sicurezza economica, una disponibilità di tempo e un bagaglio culturale); la disintermediazione dell'impegno per le cause sociali che hanno meno bisogno di luoghi o di organizzazioni per manifestarsi potendo accedere facilmente ai social media e alle piattaforme digitali.
Che non sia richiesto anche alle Istituzioni non profit un "salto quantico"? Un tornare al "perché" e al "come"? Un discorso assai lungo, ma per stare nello spazio di un editoriale vi propongo alcuni interrogativi: se le domande vi sembreranno sensate, le risposte inevitabilmente le dobbiamo dare insieme.
Siamo forse presi troppo dai meccanismi organizzativi, da una formazione orientata all'acquisizione di tecnicalità, profilata su competenze gestionali, con un profluvio di anglicismi incomprensibili ai più?
E' giunto il tempo di riprendere una riflessione culturale profondamente umanistica, che dia senso e significato all'agire volontario? Ai valori della gratuità e del dono? A quella dimensione spirituale essenziale per animare il bene?
Gli enti sono luoghi di gestione di servizi professionali e volontari, o anche spazi di qualità relazionale, di costruzione di vera amicizia e fraternità?
Non pare urgente recuperare il senso del "come si fa" che non è solo buona assistenza (erogatori di servizi di welfare) ma promozione dei diritti di cittadinanza nelle comunità locali?
E' giunto il tempo di tornare a fare politica, stando nel proprio campo, per contribuire a rimuovere le cause che provocano disuguaglianze e ingiustizie ?
Un'Associazione di adulti volontari come ANLA può aiutare a costruire ponti tra le generazioni per riscoprire la bellezza dell'impegno per gli altri? Come?
(Crediti fotografici: iStock.com/ Drazen Zigic)
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