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Pandemia e fondi alla Sanità

(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) L'aumento dei fondi alla Sanità, essenziale in un paese al sedicesimo posto in Europa per spesa sanitaria, è stato imposto dalla pandemia, ma allo stesso tempo eroso da questa: dal 2020 ad oggi è passato da 113,8 a 124,9 miliardi, un aumento di ben 11,2 miliardi, di cui 5,3 assegnati con decreti COVID-19. Le risorse sono state interamente assorbite dalla pandemia e nel 2022 diverse regioni rischiano di chiudere con i conti in rosso. A evidenziarlo è il quinto rapporto della Fondazione Gimbe sul Servizio Sanitario Nazionale. Uno studio che mette anche in in guardia sui rischi del regionalismo differenziato. 

La pandemia presente il conto dei suoi effetti a medio e lungo termine che vanno ad aggiungersi ai problemi che pesavano sulla sanità pubblica in era pre covid e che sono rimasti irrisolti: liste d'attesa lunghissime per visite, esami, operazioni chirurgiche e screening, ma anche nuovi bisogni di salute dettati dagli effetti del long covid e dalle ricadute della pandemia sulla salute mentale. Soprattutto, l'ulteriore indebolimento del personale sanitario: pensionamenti anticipati, burnout , demotivazione, licenziamenti volontari e fuga verso il privato lasciano sempre più scoperti settori chiave specie i pronto soccorso. Considerato che gli investimenti per nuovi specialisti e medici di famiglia daranno i loro frutti non prima di 5 e tre anni, il nodo del personale richiede soluzioni straordinarie in tempi brevi. Se la stagione dei tagli alla sanità può ritenersi conclusa è evidente che il rilancio del finanziamento pubblico è stato imposto dall'emergenza pandemica e non dalla volontà politica. 

L'Italia spende poco in sanità, sia nel confronto con l'Europa che, ancora di più, con i paesi del G7. Nel 2021 la spesa pubblica pro capite per la sanità nel nostro paese è ben al di sotto della media in Europa. Con 3052 dollari per cittadino rispetto ai 3488 della media dei paesi Ocse siamo al sedicesimo posto. Impietoso poi il confronto con i paesi del G7: dal 2008 siamo fanalino di coda con differenze sempre più ampie. Una tendenza confermata dalle previsioni del 2022 e dalla nadef 2022 che nel triennio 2023 -2025 prevedono una riduzione della spesa sanitaria media del 1,13% per anno e un rapporto spesa sanitaria - pil che nel 2025 precipita al 6,1% ben al di sotto dei livelli pre pandemia. Se nel pieno dell'emergenza tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di potenziare la sanità, ora questa è di nuovo messa all'angolo. 

In vista del nuovo governo c'è urgente necessità di rimettere la salute al centro dell'agenda, pilastro della democrazia. Ma ci sono altri due motivi di preoccupazione. A quasi sei anni dalla loro introduzione, molte delle prestazioni previste dai Lea, i livelli essenziali di assistenza, non sono ancora un diritto per moltissimi cittadini, perché il decreto tariffe non è stato mai approvato. Una nuova minaccia  rischia di rendere le cure minime garantite ancor meno uguali tra le diverse regioni, parliamo della autonomia amministrativa. Occorre maneggiare con cura il regionalismo differenziato in sanità perché l'attuazione tout court delle maggiori autonomie richieste non potrà che esasperare le disuguaglianze regionali ampliando il divario tra nord e sud del paese. 

Il fondo sanitario nazionale oggi è fortemente sbilanciato sugli acquisti di beni rispetto al personale, se questa forbice si allargherà il sistema esploderà perché non sono certamente gli strumenti a poter garantire la salute ai cittadini bensì i professionisti; le carenze riguardano soprattutto infermieri e medici di medicina generale, quest'ultimi inferiori rispetto alle medie, non omogeneamente distribuiti  e molto scarsi nelle aree a bassa densità abitativa o disagiate. 

Anche alcune specialità mediche sono in grande sofferenza. Nel decennio 2010 2020 abbiamo assistito alla chiusura di circa 110 ospedali e di oltre 110 pronto soccorso, con una riduzione di 37.000 posti letto. Nelle strutture ospedaliere sopravvissute ai tagli mancano 29.000 unità lavorative, di queste 4300 sono chirurghi.

 

 

(Crediti fotografici: iStock.com/ Chinnapong)

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