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L'Italia della sussidiarietà

(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Da poco più di una settimana è stato presentato il Rapporto Istat sulla situazione del Paese: più di 200 pagine, dati e riflessioni  su nodi da sciogliere e su risorse e opportunità da cogliere. Il rapporto ci propone una Italia ambivalente, più resiliente sul fronte economico rispetto ad altri paesi europei e, al contempo,   più fragile sugli aspetti di coesione sociale. Nel periodo preso in considerazione la nostra economia sopravanza quelle di Francia e Germania: abbiamo fatto meglio di altri in un periodo per nulla semplice. Certamente le risorse pubbliche massicciamente immesse nel sistema economico hanno stimolato il nostro export, rafforzato la capacità di spesa delle famiglie nonostante l'inflazione e riportato il turismo ai numeri pre pandemici. Lo stiamo sperimentando anche noi: le principali città italiane sono davvero inavvicinabili riguardo la possibilità di trovare un alloggio,  una prenotazione ad un museo, per non parlare delle file (indecenti) per prendere un taxi. 

Offrire  una lettura sui soli dati economici sembra riduttivo: non danno ragione della capacità di resistenza e di tenuta mostrata dal nostro Paese. È una Italia da sempre sottovalutata, spesso non compresa dalla politica, che non sta sui social e non si mette in vetrina: sono le piccole imprese, gli artigiani, le professioni, le famiglie, le reti di terzo settore, le tante buone amministrazioni comunali... È quell'Italia della sussidiarietà che fa la sua parte in silenzio, si carica delle responsabilità in prima persona, anche di quelle non direttamente a proprio carico, con la postura da cittadinanza dei doveri e non solo dei diritti. I commentatori talvolta descrivono questa Italia con un pizzico di ironia e di pregiudizio, con l'altezzosità di chi ha già capito tutto: l'Italia minore, dei piccoli comuni,  dei mille campanili, delle tradizioni preservate con amore, le pro loco, gli oratori, i centri sociali... Italia che minore proprio non è. Se oggi il paese può ancora pensare ad uno sviluppo più giusto e solidale lo deve anche a loro, soprattutto a loro.

Torniamo all'altra dimensione illustrata dal Rapporto, quella delle troppe fragilità che attanagliano il paese: sono i problemi (di sempre) e le criticità che anno dopo anno si consolidano patologicamente, sempre più difficili da smontare, e che rallentano da decenni lo sviluppo sociale delle comunità. Sono temi che  più volte abbiamo approfondito nelle  newsletter, nella rivista e negli incontri di formazione. Con voi riprendo, davvero per cenni, la questione giovanile annoverata tra i punti più critici della vita del paese, con un interrogativo che da tempo prende i miei pensieri. Non è che l'incapacità di affrontare i nodi più incancreniti dipendano da una lettura della realtà che usa   lenti (culturali) consumate o occhiali (quelli di sempre) che non mettono più a fuoco il sentimento che percorre la vita delle nostre comunità? Le formule si ripetono stancamente, convegno dopo convegno, seminario dopo seminario. Perché dunque non cambiare il punto di vista e guardare la vita con gli occhi dei giovani, più centrali negli investimenti e meno "riserva indiana"? Lo abbiamo auspicato da sempre, l'agenda è già scritta: più  asili e cura della genitorialità; più scuola e formazione (spendiamo solo il 4,1% del Pil) per contrastare quel meccanismo di transizione intergenerazionale della povertà tra i più intensi in Europa, a conferma che l'influenza dei contesti familiari di appartena incide più di quanto si immagini. E poi più qualità del lavoro, e livelli retributivi degni (il potere di acquisto è sceso del 2% mentre in Europa è aumentato del 2,5%) con una occupazione giovanile e femminile tra le più basse in Europa, precaria frammentata e mal retribuita.

E che dire di politiche demografiche serie, che seppure fossero avviate oggi avrebbero effetto fra 20 anni? In un paese con un tasso di longevità tra i più alti al mondo (nel 2022 abbiamo un 22mila centenari), non è opportuna una gestione finalmente lungimirante delle politiche migratorie - che sappiamo non sono una passeggiata - in un paese che prevede un calo di popolazione di 5 milioni entro il 2050?

È tutto nelle mani della politica? Non proprio, smentiremmo l'assunto iniziale di questa riflessione. Senza voler passare da qualunquista, potremmo dire che nonostante la mancanza da decenni di una politica di progetto, il paese è stato capace di resistere e rigenerarsi. Il cuore di questa storia sta tutto  nelle comunità locali, nel riconoscersi comunità di destino, nel contribuire allo sviluppo e alla  cura dei beni pubblici superando  la falsa contrapposizione tra interesse privato e beni pubblici. Perché siamo  connessi e interdipendenti, la nostra felicità, quella vera è anche nelle mani delle comunità in cui viviamo, quelle famigliari e amicali, quelle civili, e quelle tra noi, amici e amiche Anla.

 

(Crediti fotografici: iStock.com/ Sean Pavone)

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