(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Le indagini internazionali confermano che la solitudine di tanti è un fenomeno diffuso e pervasivo, un fenomeno già presente e studiato da anni e che la lunga pandemia ha indubbiamente accentuato. Negli States e in Europa, tra i millennials ( la generazione dei nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta) uno su cinque dichiara di avere zero amici, zero relazioni, nessuno con cui condividere un segreto, una confidenza, un amore, un tratto del cammino di vita. È noto il fenomeno degli hikikomori scoppiato in Giappone e oramai diffuso in molti paesi (in Italia si pensano siano più di 30 mila), giovani che volontariamente si isolano e rifiutano ogni forma di relazione e contatto con il mondo esterno, persino con la luce del sole; o quello delle giovani che decidono di celebrare il loro wedding - il matrimonio- con se stesse dove c'è tutto salvo lo sposo perché non hanno tempo di cercarlo. Sempre in Giappone molte anziane con pensioni minime e con figli troppo occupati commettono piccoli furti pur di finire in carcere e avere qualcuno con cui chiacchierare. Sono fenomeni estremi ma che annunciano una tendenza, fanno emergere un disagio più diffuso di quanto appaia, che si manifesta in forme sommerse e sotto traccia.
Davvero un paradosso se ci si pensa un attimo: nel dibattito pubblico le parole più utilizzate parlano positivamente di altro nonostante i solitari siano diventati la maggioranza, come confermano gli ultimi dati di Istat che rilevano che i single per la prima volta sono la maggioranza nel paese. Le parole più frequentate parlano di Inclusione, condivisione, coworking, coliving, prossimità, coprogettazione... l'opposto di solitudine.
Si dà la colpa ai due anni e più passati sotto la pandemia che hanno impedito di incontrarci, di fare festa, di girare e viaggiare. Ma è vero solo in parte, in realtà il virus della solitudine si è insinuato molto prima in noi, nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie. La cultura che ha pervaso i decenni scorsi si è nutrita di un individualismo a volte feroce ed egoista, avviluppato sui propri bisogni che perentoriamente si vorrebbero tradotti in diritti esigibili. Siamo diventati così una società di numeri primi, di monadi isolate che si sfiorano o si guardano da lontano senza condividere alcunché.
Un fenomeno diffuso tanto da far emergere una "economia della solitudine" che fornisce servizi di ogni tipo con algoritmi creati per sostenere chi si sente solo.
Quale cura dobbiamo adottare per frenare l'emorragia di amicizia che sappiamo fa male allo spirito, alla salute e al benessere delle persone? La vie sono note, spesso sono sentieri abbandonati e dimenticati; basterebbe ascoltare l'esperienze di vita di coloro che quotidianamente danno senso alla propria esistenza, di giovani e anziani che resistono perché l'accidia non prenda sopravvento nel loro cuore, o non sopravvenga il risentimento e quella forma egocentrica che ti vorrebbe al centro e sempre indispensabile. Giovani e anziani che tutti i giorni esercitano la fatica di costruire relazioni positive e di amicizia. Già, perché fare amicizia non è sempre una passeggiata come raccontano le soap opera sdolcinate, chiede di inerpicarsi su viottoli scoscesi, di fare pause e prendere fiato in attesa che l'altro ti raggiunga e cammini con te. Tuttavia lo strumento più efficace per combattere la solitudine è fare associazione: uso sempre il verbo fare perché l'associazione non è un brand, una lettera, una pec, un rapporto grigio e burocratico accompagnato da titoli e referenze altisonanti (non si usano neppure nei convegni internazionali), una pretesa o solo richieste. Fare associazione è costruire relazioni positive, prendersene cura con spirito di amicizia e di altruismo.
Grazie di cuore ai gruppi Anla che testimoniano questo fare associativo quotidiano, sono un antidoto al virus della solitudine.
(Crediti fotografici: iStock.com/splendens)
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