(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Sono passati ormai due anni dallo scoppio della guerra alle porte dell'Europa con effetti pesanti sulle relazioni internazionali, sull'economia e sul clima che attraversano le opinioni pubbliche europee. Con preoccupazione annotiamo che questa atmosfera "bellica" contamina anche il linguaggio pubblico più in uso: o si accantonano le parole di pace ritenute deboli e inconcludenti, o si distorcono quelle che nel loro significato più profondo di bellico hanno ben poco. Penso a parole come fronte, linea, forza, conflitto, confine, competizione, che se collocate in un contesto di amicizia sociale riemergerebbero nei loro significati più profondi.
Un esempio è parola fronte, tornata alla moda soprattutto nella competizione elettorale francese : il " Nouveau Front Populair" contro l'erede del vecchio " Front National". Fronte, in questo frangente, sta per scavo di fossi e muri, trincee e barriere per impedire l' avanzamento del nemico. Fronti da presidiare, che sia il fronte dei diritti a sinistra o il fronte dei patrioti a destra. Eppure "fare fronte" significa anche sostenere, sopperire, intervenire in aiuto, fare unità, guardare e parlarsi a viso aperto. Come pure le parole linea e confine, che non definiscono tratti da difendere ma lo spazio dell'attraversamento, della scoperta dell'Altro, della contaminazione tra le culture. Ma più di tutto è quella dimensione spirituale che ci costringe a guardare oltre, a porci le domande di senso, ad inquietarci positivamente, a decidere che è giunto il tempo di ripartire e rischiare la speranza.
Per non parlare della parola conflitto che non siamo più capaci di governare oscillando tra posizionamenti bellici e di scontro, e il lasciar perdere per indifferenza. La parola come la utilizziamo oggi richiama i verbi urtare, contrastare, combattere, contrapporre. In realtà, scavando un po' di più, ci propone un'altra prospettiva: il contatto tra idee e differenze che è una dimensione naturale e una realtà quotidiana della vita sociale e politica, tanto da richiedere una architettura istituzionale solidificata dal diritto, da norme e protocolli, da accordi e patti. Tutto per mettersi a confronto, per incontrarsi e cercare una armonia possibile che, va da sé, non prevede né vincitori né vinti.
Governare il conflitto è esercitare l'arte della mediazione, il metodo più antico per risolvere le controversie. Un' arte dimenticata o peggio stigmatizzata come svendita dei propri ideali e convincimenti, un tradimento per un piatto di lenticchie. Ma non è così: mediare un conflitto è qualcosa di più profondo, è un movimento dell'anima che porta ad evidenziare i legami che uniscono le parti in causa, le storie comuni da recuperare o le differenze irriducibili e quindi necessarie che vanno riconosciute e accolte. Legami e beni comuni che possono riavviare percorsi di amicizia e di prossimità. È questo quello ci attendiamo da coloro che hanno la responsabilità di prevenire e gestire i conflitti a livello internazionale, è questo l'unico modo che conosciamo per promuovere la pace.
Anche noi possiamo fare la nostra parte, coltivando e agendo le parole giuste, promuovendo una vera ecologia delle buone relazioni: in famiglia, nella riunione di condominio, partecipando ad un dibattito pubblico, scrivendo una lettera o un post sui social, facendo associazione. Usando la forza, altra parola abusata, non per mostrare muscoli e potenza. "La forza sia con te" direbbero nel film Guerre stellari, la forza del nostro pensiero positivo: non possediamo verità assolute, rifuggiamo da visioni impaurite e catastrofiche, ma abbiamo la nostra esperienza e sappiamo che le cose buone possono accadere, le cose buone che desideriamo per noi e gli altri.
(Crediti fotografici: iStock.com/ mitchii)
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