(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Per una settimana abbiamo letto critiche, commenti e rivendicazioni sulla vicenda del trasferimento di 16 (poi ridotti a 12) migranti in Albania e della decisione del Tribunale di Roma di rimpatriarli.
Questo clima politico contrapposto e avvelenato non aiuta la riflessione sulle questioni più complicate che via via il Paese deve affrontare. Attenuata la polemica e abbassati i toni del confronto, proviamo insieme a fare il punto, per quanto possibile oggettivo, su cosa è accaduto e stiamo parlando.
La vicenda è tutta concentrata sulla definizione di Paese sicuro. Vicenda complicata e intrecciata tra decisioni nazionali, diritto internazionale, normative UE e i pronunciamenti della Corte di Giustizia Europea.
Vediamo di fare un po di chiarezza. Il diritto internazionale e il diritto dell'Unione Europea, a proposito di procedure per la richiesta di asilo, considerano sicuro un Paese se possiede un solido sistema democratico che rispetta i diritti fondamentali e nel quale non vi è alcuna forma di persecuzione, tortura, pene o trattamenti degradanti, e nessun conflitto armato in corso.
La sentenza della Corte di Giustizia Europea in particolare stabilisce che un Paese, per essere considerato "sicuro", deve essere sicuro per tutti e per tutto il suo territorio nazionale: materia assai scivolosa, tanto scivolosa che ogni Paese della UE si è fatta una lista a misura . Per stare a noi, nella lista italiana ci sono Paesi ritenuti sicuri ma che in base alla sentenza della Corte non lo sono perché, ad esempio, alle donne e alle fedi religiose non è garantita la piena parità oppure sono messe in atto persecuzioni contro stranieri, avversari politici, dissidenti, giornalisti e difensori dei diritti umani. In questi casi i migranti giunti in Unione Europea non possono essere respinti automaticamente se fanno richiesta di protezione internazionale.
La definizione di "Paese sicuro" ha quindi implicazioni notevoli e concrete perché influisce sulle procedure per ottenere la protezione, o per negarla prevedendo quindi il rimpatrio. Si aggiungono poi le norme dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati che prevedono una procedura ben definita: la richiesta deve essere esaminata pienamente e individualmente nel merito e in conformità con determinate garanzie procedurali; ad ogni richiedente va sempre concessa la possibilità di precisare le motivazioni per le quali il suo Paese non è, nel suo specifico caso, sicuro.
Vi dicevo, questione scivolosa e complessa che a mio parere rimarrà tale e ancora motivo di polemiche; tra l'altro il nuovo Patto UE sulla Migrazione varato quest'anno e che dovrebbe entrare in vigore nel 2026 non prevede, neanche questa volta, una lista europea condivisa di Paesi sicuri. Continuerà dunque il fai da te.
Alcuni punti fermi però vanno ribaditi.
La primazia del diritto europeo rispetto al diritto interno è l'asse portante di tutto l'ordinamento giuridico per cui se c'è un contrasto tra norma europea chiara e precisa e una norma di diritto interno, il giudice non può che applicare la norma UE. La Corte di Giustizia lo ha ribadito più volte, le sue decisioni sono vincolanti per gli Stati membri e, nel caso, ha stabilito che i Paesi sicuri di origine dei migranti non possono esserlo in maniera parziale. In virtù di questo pronunciamento il Tribunale di Roma ha vietato il trattenimento dei 12 migranti nel Centro in Albania perché Egitto e Bangladesh sulla base delle stesse schede del Ministero degli Esteri sono definiti sì Paesi sicuri, ma con numerose eccezioni. È su questo che il tribunale di Roma ha preso le sue decisioni.
Il Governo ha reagito affidando ad una fonte primaria, una legge del Parlamento e non a un atto amministrativo, la definizione di Paese sicuro alla quale la Magistratura dovrà attenersi.
Temo che la questione immigratoria non sarà risolta, e che assisteremo ad un confronto incattivito e non all'altezza della sfida. Il Trattato di Dublino è ancora lì e il patto di redistribuzione nella UE è inefficace e non praticato, le regole per giungere nel nostro Paese per la ricerca di lavoro sono vecchie di decenni, il sistema di accoglienza è ormai al collasso con il risultato che sono troppi gli irregolari che vagano nelle periferie con un foglio di espulsione che nessun è in grado di far rispettare. La gestione dei flussi migratori fuori dal furore polemico sarebbe al contrario una grande occasione: lo invocano le imprese, e non solo le imprese, e tutta l'area dei servizi di welfare ne trarrebbe vantaggio, persino il nostro sistema previdenziale.
(Crediti fotografici: iStock.com/ wabeno)
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