(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) "È legge dell'universo che non si può fare la nostra felicità senza fare quella degli altri": così Antonio Genovesi padre dell'economia civile, vissuto nel settecento a Napoli, contrapponeva la sua visione positiva dell'uomo "homo homini amicus" a quella hobbesiana dell' "homo homini lupus" a sua volta ripresa da Plauto. Visione quest'ultima che detterà il pensiero mainstream della teoria economica nei secoli successivi.
I dati elaborati da numerosi rapporti internazionali, e gli studi di alcuni premi Nobel, hanno dato ragione a Genovesi e rimarcano la possibilità che l' economia - la "gestione della casa" - possa essere per davvero finalizzata - se lo si vuole - al soddisfacimento dei bisogni di tutti i membri di una comunità gestendo al meglio le risorse disponibili. Di più: sostengono che alcuni valori - la gratuità, il dono, la cura, la reciprocità... - spiegano la diversa soddisfazione di vita tra le popolazioni interpellate nelle ricerche internazionali, e che non sono estranee all'agire economico; anzi, sono l'ossigeno che genera una economia dei beni comuni più inclusiva e sostenibile.
Delle quattro citate vorrei soffermarmi in particolare sulla cura che penso "significhi" meglio di altre la parola sostenibilità su cui abbiamo già riflettuto. La cura ha alcune peculiarità: racchiude una attenzione particolare per l'altro, per un luogo o uno spazio; fa fiorire una relazione profonda perché dura nel tempo riempiendola di senso, è generativa cioè capace di "trasformazione, di gesti inediti e di cambiamento, di responsabilità istituente " come ricorda Mauro Magatti nel suo ultimo libro "Nella fine è l'inizio". "Non un contratto ad alta neutralità affettiva e a basso costo di uscita... ma una reciprocità inedita, asimmetrica che però diventa attenzione e promozione anziché paternalismo o dominio".
"Amare quello che sarà" nella prospettiva della cura è rinunciare a perseguire il criterio quantitativo della produzione che tanto ha condizionato la nostra economia e il nostro modo di pensare, e spingere a puntare sulla qualità, sulla partecipazione e sulla creatività dei giovani, su quell'artigianato del bene esperto di rammendo di legami sociali spesso consumati e sfilacciati.
Un altro autore, Stefano De Matteis nel suo libro "il dilemma dell'aragosta: la forza della vulnerabilità" ci indica due percorsi, personale e associativo. Mi permetto di proporveli.
Lo sanno in pochi, ma l'aragosta nasce senza guscio, è nuda e inizialmente senza protezione. Il guscio si forma successivamente e rimane immutato nonostante l'animale cresca, tanto che giunge il momento che quel guscio va cambiato, troppo vecchio, piccolo e scomodo. L'aragosta resta nuda, indifesa, in attesa che cresca un abito più adeguato alle nuove esigenze. Ecco, il dilemma dell'aragosta sta proprio in questo: abbandonare a livello personale il proprio guscio, capire quanto sia diventato troppo stretto ed esporsi al rischio del cambiamento. La pandemia ha alimentato in noi la tentazione alla chiusura, a rinserrarci nelle nostre comfort zone, un lockdown a bassa intensità. Vi auguro che la Pasqua che si avvicina faccia risuonare ancora dentro di noi il desiderio di oltrepassare i confini, di abbandonare i "vestiti" del già noto per scommettere ancora su una vita ricca e degna di essere vissuta.
Non solo il dilemma dell'aragosta: l'autore propone " il metodo della cesta di vimini, che con l'intrecciarsi di tanti rami di salice, nella loro affinità ma anche nella loro distinzione, compongono un corpo unico". È il secondo suggerimento: una associazione è un cesto di vimini, un bene comune da curare e preservare perché un viaggio per essere entusiasmante non si fa mai da soli.
Amare quello che sarà appunto.
Buona Pasqua a noi tutti. E grazie per il vostro impegno.
(Crediti fotografici: iStock.com/mbolina)
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