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Giorno della Memoria, 2024

(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Dal 2000 le legge italiana riconosce il 27 gennaio "Giorno della Memoria", nel  2005 con una risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu questa data è una giornata celebrata a livello internazionale.

Come per le ricorrenze previste dal calendario civile della Repubblica anche il Giorno della Memoria rischia di cadere nel celebrativo, nella commemorazione da-dover-fare, nel rischio di annacquare il significato profondo di ciò che questa giornata celebra, commemora e ricorda.

Vorrei  mettere a fuoco alcuni snodi, spero utili, perché il Giorno della Memoria di quest'anno, anche alla luce di quanto sta accadendo nel conflitto a Gaza, diventi  la giornata di tutti, non di una parte sola come accade talvolta in altre celebrazioni.

La prima considerazione. È una giornata nella quale si ricordano le vittime, ed è doveroso farlo. Ma in questa temperie è urgente anche dedicare una riflessione sul "prima" della Shoah. L'orrore della Shoah è giunto dopo una serie di tappe che i storici hanno ben dettagliato, la sua genesi viene  da lontano: "si soffoca la democrazia, poi si introducono leggi discriminatorie, quindi si disumanizzano le vittime designate, le si chiude nei ghetti, infine si arriva alla Shoah". Se si va ad Auschwitz la reazione di condanna di fronte alla macchina dello stermino è immediata, scatta nella coscienza il "mai più". Ma oggi non basta, occorre maggiore consapevolezza sul come si è giunti a quella tragedia immane e orrenda. È una mancanza che bisogna colmare sul fronte culturale ed educativo per tenere viva la virtù civile della vigilanza che ci abilita a riconoscere i semi dell'odio razziale che  nascono attorno a noi. Andrebbero tematizzati i meccanismi che hanno originato  la "zona grigia" composta da donne e uomini che rimasero indifferenti di fronte all'espulsione, all'esproprio e infine alla deportazione di colleghi di lavoro e vicini di casa solo perché ebrei. Perché il fiume carsico dell'antisemitismo continua, ha radici antiche,  ogni tanto riemerge, e ripropone la necessità di compiere un lavoro educativo più incisivo. Su due assi: il dovere alla  responsabilità personale e collettiva che non può essere mai dismessa, e l'educazione alla obbedienza, quella sana, non quella   tossica del senza-se-e-senza-ma agli ordini superiori che durante la Shoah ha inabissato le coscienze di tanti. L'obbedienza tossica la ritroviamo anche nel linguaggio contemporaneo quando echeggiano i temi di allora: complotti, cospirazioni, sostituzioni etniche, respingimenti, lobby misteriose che vogliono sovvertire l'ordine.

Una seconda riflessione. Occorre  una nuova ecologia delle parole da utilizzare con amore e prudenza, perché le parole possono diventare sassi, armare comportamenti sbagliati o portare a valutazioni politiche errate. Un esempio di questi giorni è la parola genocidio: ma cos'è un genocidio? Dove si colloca la linea di divisione tra un massacro di gruppo e  la distruzione sistematica di una intera collettività  secondo un criterio puramente razzista?  Cosa distingue un genocidio da un crimine di guerra? La formula più accreditata nel diritto internazionale lo definisce come la volontà di sterminare un popolo per quello che è,  non per  motivi di conquista o di sottomissione, ma solo per odio razziale. Le dichiarazioni di questi giorni scorrono nelle nostre menti, le trovo spesso poco avvertite, un po' buttate lì. È importante aiutarci a discernere, a inquietarci, a trovare le coordinate per aprire un dialogo fecondo. L'attacco sferrato il 7 ottobre da Hamas, accompagnato dalle dichiarazioni deliranti dei suoi capi,   può essere denunciato come un tentativo genocida rivolto alla distruzione del popolo ebreo? L'occupazione e la guerra di Gaza, l'uccisione di migliaia e migliaia di civili innocenti, è classificabile come una azione genocida come dichiara il SudAfrica? Ho citato una parola faticosa, lo so, che rende chiaro come un termine pesi tanto da generare contrapposizioni. E confusioni, come quella alimentata da Putin quando   dichiarò, prima dell'invasione, che in Donbass era in atto un genocidio ad opera del governo ucraino. Un punto fermo lo abbiamo: la sentenza della Corte internazionale di Giustizia dell'Aja dichiarò genocidio il massacro dei mussulmani di Bosnia  a Srebenica nel 1995.

Ultima riflessione. L'Europa del 1945 doveva ricostituire un patto di convivenza dopo l'orrore che aveva vissuto. Quella generazione di politici illuminati lanciò una idea alta del vivere insieme, del valore non negoziabile della dignità della persona, della possibilità di costruire relazioni tra le nazioni improntate sul dialogo e sulla pace. È ancora così? La memoria del 27 gennaio, uno dei cuori della fondazione europea, non va persa, non deve cadere nella trappola del celebrazionismo, o in quella dell'inutile polemica politica.

 

 

(Crediti fotografici: iStock.com https:/ Oliver Chan)

 

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