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I cambiamenti del mondo del lavoro

(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) I dati dei primi 9 mesi del 2022 pubblicati dal Ministero del lavoro - Istat segnalano quasi 1,9 milioni di dimissioni volontarie: un numero che continua ad aumentare rispetto all'anno precedente, peraltro in linea con la tendenza registrata in tutto il mondo  industrializzato.

La vicenda suscita una prima domanda, ovvia e scontata: com'è possibile che in un paese dove le occasioni di lavoro non sono pane quotidiano, più di 1 milione e mezzo di occupati negli ultimi mesi decidano di licenziarsi? Certo, il conteggio va depurato dai casi in cui non si assiste ad un vero e proprio abbandono, come nel passaggio dal lavoro dipendente a quello autonomo o ai trasferimenti all'estero. Ciò nonostante la cifra rimane davvero impressionante, parliamo di quasi l'8% del totale degli occupati attuali; di più, l'abbandono del lavoro spesso avviene senza disporre di valide alternative, senza alcun paracadute. Un fenomeno assolutamente nuovo, che merita l'attenzione della nostra associazione: archiviare tutto come se la questione riguardasse solo "persone un po' strane" o persone che "non hanno voglia di lavorare" non ci aiuterebbe a   comprendere i cambiamenti assai profondi in atto nel mondo del lavoro, soprattutto a non interpretare i desideri e le speranze delle generazioni più giovani.

Vediamo di descrivere i tratti più salienti del fenomeno. Per primo annotiamo un elemento di positività: il mercato del lavoro italiano appare più dinamico,ci si muove più agilmente, e questo non è male. Un secondo elemento, illuminante, è che il fenomeno riguarda soprattutto i giovani tra 18 e i 30 anni: chi cambia lo fa per cercare benefici economici (46%) e più opportunità di carriera (35%);  per una migliore salute  fisico-mentale (24%), per inseguire le proprie passioni personali (18%) o per una  flessibilità di orario (18%) che concili la vita lavorativa con l'altra vita.

Il quadro che ne viene fuori, molto in sintesi, disegna le richieste dei giovani lavoratori: rivendicano retribuzioni più eque e maggiore attenzione al benessere in azienda; puntano su modelli organizzativi di qualità, sono meno disponibili ad accettare condizioni di lavoro vessatorie e orari non adeguati alla vita di tutti i giorni. Per questi motivi sono pronti a tutto, anche a dimettersi, pur di trovare un modello aziendale sostenibile e incline ad una maggiore qualità della vita. Possiamo dire che si tratta di una ribellione non organizzata nei confronti delle attuali strutture organizzative, ci stanno indicando un'altra prospettiva e sta a noi comprenderla.

L'inizio della nostra vita adulta era racchiusa nell'invito dei nostri genitori: ... adesso trovati "un bel lavoro", come titola l'ultimo libro di Alfonso Fuggetta. Ma che vuol dire trovarsi oggi un bel lavoro? La nostra generazione, nel tempo passato, ha dato una risposta quasi unanime: il bel lavoro è quello che garantirà, anche a costo di sacrifici, il futuro a noi stessi e alla nostra famiglia! Oggi la risposta dei giovani, dei nostri figli, non è né scontata né  unanime. 

Il pensiero mainstream nei convegni analizza le trasformazioni del lavoro nella dimensione economica, tecnologica e organizzativa; si parla di automazione, dei mestieri che spariscono, di digitalizzazione e intelligenza artificiale. Ma questa è una delle due facce della medaglia-lavoro, diciamo la parte hard. Ve ne è un'altra sottovalutata che è quella antropologica e culturale, l'altra faccia della medaglia, quella soft, che ci rammenta che i giovani lavoratori   hanno altre aspirazioni. Non cercano un lavoro solo per guadagnare bene, vogliono anche vivere bene; desiderano un'esperienza professionale appagante e stimolante. Per loro un bel lavoro è quello che ha un significato e produce risultati di qualità e di valore, è flessibile e sicuro, cooperativo e dinamico, permette di imparare e crescere professionalmente.

Se è questa la prospettiva che i  giovani ci annunciano, e se per le persone il "senso" del lavoro in azienda conta, la questione posta non è da poco. Saremo capaci di creare non solo posti di lavoro, ma lavori belli? Le imprese sapranno prendersi cura del benessere dei propri dipendenti? Oggi queste aziende sono  ancora una minoranza: la gran parte delle aziende italiane sono microimprese con bassa produttività e capacità innovativa, e valorizzazione professionale assai scarsa. 

Siamo all'inizio, il cammino è tutto da intraprendere, piuttosto irto e dagli esiti incerti, ma è su questo che si gioca il futuro di quel lavoro citato nell'articolo 1 della nostra Costituzione.

 

 

(Crediti fotografici: iStock.com/ SeventyFour)

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