Natale di pace

(di Edoardo Patriarca, presidente nazionale ANLA) Si avvicina il Natale  sommerso da una pubblicità abbagliante e stereotipata, inframezzata da melodie e  scampanellii, da un color rosso che incombe su tutta la scena, dai Babbo Natale, dalla spinta potente a consumare soprattutto l'inutile, a caccia dei regali online buoni per tutte le età e le stagioni. 

Facciamo la pace! Dovete fare la pace!  Quante  volte lo abbiamo raccomandato ai nostri figli, e quante volte ce lo hanno chiesto i nostri genitori un po' di tempo fa! Quante volte la pace l'abbiamo pregata e cercata... 

In queste semplici battute forse riscopriamo il senso e il significato più profondo delle giornate che ci apprestiamo a vivere con i nostri cari, con gli amici, nei pranzi e nelle cene, nelle celebrazioni religiose che fanno memoria del Dio che si è fatto bambino su questa terra.

Il Natale è fare la pace, in un tempo - quante volte lo abbiamo scritto - nel quale, al contrario, prevalgono sentimenti di impotenza, la tentazione al silenzio rassegnato e ad una passività che lentamente corrode i nostri cuori.

Fare la pace non è solo un grido indignato, uno slogan contro la guerra e le ingiustizie, o  una manifestazione. La pace va preparata e perseguita nelle dimensioni della vita, sia personale che pubblica, se vogliamo davvero contrastare la cultura della forza, della prepotenza, della violenza a bassa intensità che ammorba il nostro tempo. La guerra in Ucraina, ora la guerra in Palestina fra Hamas e Israele, sono la punta di un iceberg cresciuto sulle centinaia di migliaia di piccole guerre in atto nelle comunità in giro per il mondo, tra rabbie e contenziosi, violenze quotidiane e soprusi, persecuzioni e discriminazioni.

Quale può essere la parola che dà le gambe all'invito pressante a fare la pace? Vi ripropongo l' "I care", quel prendersi cura degli altri tanto caro a don Lorenzo Milani, partendo dai più bisognosi, dai più fragili e dai più piccoli. È attraverso questo prezioso impegno quotidiano che ognuno di noi dà risposta al bisogno umano fondamentale di vivere in pace. E per questo ci riconoscono subito! E noi pure li riconosciamo: si prendono a cuore gli altri anziché pensare solo a sé stessi, praticano la cultura della solidarietà anziché la cultura dell'indifferenza,  cercano il bene comune e non quello individuale, l'interesse generale anziché quello particolare, l'amicizia sociale piuttosto che la competizione selvaggia del tutti contro tutti. È il popolo delle persone pacifiche del giorno dopo giorno, perché a nulla vale invocare la pace se non si è disponibili a farla in prima persona, nelle nostre città, nei luoghi di lavoro, in associazione. Il mondo cambia se cambiamo noi, valorizzando soprattutto ciò che ci unisce e tutto ciò che costruisce più amicizia.

Concludo con un pensiero per Narges Mohammadi, l'attivista iraniana detenuta nella prigione di Evin a Teheran, assente alla cerimonia di consegna del premio Nobel per la pace ad Oslo nel giorno, tra l'altro, del 75esimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani. Una testimonianza luminosa, una donna di pace imprigionata a causa della sua lunga campagna contro la pena di morte e l'uso obbligatorio dell'hijab. Il suo messaggio è stato letto dai due figli in esilio a Parigi. Kiana, sua figlia, in una intervista ha dedicato queste parole a sua madre: "forse rivedrò mia madre tra 30 40 anni, ma penso che non la rivedrò più. Non importa, perché mia madre vivrà sempre nel mio cuore, così come vivranno i valori per i quali vale la pena lottare". 

Buon Natale! Che sia di pace nelle nostre case, e di pace nelle nostre città. 

(Crediti fotografici: iStock.com/ manaemedia)